(dall’Introduzione di “Rigging“, di Danilo Fabbroni, ed. Incontri Nautici, pag. 7-9).

Molte volte, nel passato, mi è capitato di interrogarmi a fondo sul senso di un libro sul rigging e soprattutto quale potesse essere il senso di un tale libro in Italia. La domanda è solo apparentemente oziosa. E comunque, prima di parlare di rigging bisognerebbe chiarificare e mettere a fuoco bene il concetto di yachting. A questo proposito recito a braccio la bellissima definizione riportata da Carlo Sciarrelli nel suo inimitabile libro Lo Yacht: “…la caratteristica comune (dello yacht) è che serve per andare a spasso alla maniera che farà più piacere al proprietario” *.

Nel quadro d’insieme di questo girovagare per mare per divertimento, che è appunto lo yachting, il quale si contrappone all’andare per mare per scopi di lucro […] la branca del rigging costituisce solo un tassello dell’intero mosaico velico. Tassello sì, ma di vitale importanza. Tassello che fattivamente unisce scafo, alberatura e vele in un tutt’uno, e che permette all’equipaggio di esaltare le prestazioni della barca a seconda delle esigenze del momento. Dall’altra parte, imbastendo un paragone con il settore automobilistico, quanto varrebbe un motore, anche il migliore del suo campo, senza degli organi di trasmissione adeguati? Ebbene, il rigging non è altro che l’insieme degli organi di trasmissione che hanno il compito di trasmettere la potenza incamerata dalle vele allo scafo. A tale proposito mi sento di raccontare un episodio significativo per illustrate cosa vuol dire rigging.

A fine estate del 1985 dovevo portare il Brava Les Copaines, una barca da regata, da Porto Cervo a Palma di Maiorca, dove era in programma il mondiale One Ton Cup. Durante il trasferimento si ruppe la cinghia dell’alternatore: rimediai al grave inconveniente che ci avrebbe lasciato di lì a poco senza strumenti di bordo a causa della mancanza di energia, costruendo una nuova cinghia fatta impiombando su sé stessa un pezzo di cima di kevlar che durò fino al nostro arrivo in porto. Il senso, la funzione e lo scopo del rigging è quello di trasmettere il potenziale energetico dalle vele allo scafo. E questo si ottiene sia con manovre fisse, dette appunto dormienti, che reggono l’albero in posizione, e sia con manovre mobili, dette correnti che servono invece per alzare e regolare le vele.

Se diamo uno sguardo a un vocabolario, l’Orlandi nella fattispecie, attorno alla voce rigging troviamo le seguenti definizioni:

  1. attrezzatore (di una nave); preparatore; equipaggiatore; puleggia a cinghia (meccanica); imbarcazione con scalmieri sporgenti (marina); nave attrezzata in un certo modo;
  2. persona disonesta; accaparratore **;
  3. attrezzatura (di una nave); travatura.
[…] Ma la più bella, precisa e sfolgorante definizione di rigging che io conosca, appartiene a un rigger del Maine, Brion Toss, che recita così: “Il rigging è l’arte di muovere, e tenere ferme, le cose con corde e nodi”***. I termini corde e pulegge sono stati usati a bell’apposta perché contrariamente a quanto ritiene la – come dire?- angusta visione del velista, rigging non sta a significare solamente e unicamente drizze, scotte, sartie, bozzelli e verricelli di una barca a vela, ma invece è un campo vastissimo che va dalle funi delle enormi gru portuali al piccolo paranchetto che serve per aprire l’ombrellone del terrazzo; la miriade di tiranti che sostengono un ponte colossale come quello in Danimarca e le quattro cordine che ci permettono di stendere i panni; l’infinità di tiranti in tondino che sono l’ossatura della piramide di I.M.Pei. Davanti al Louvre di Parigi, come la speciale corda di recupero che usano gli elicotteri del soccorso alpino.

La stessa ampia visione la dobbiamo avere quando parliamo di rig. Difatti il rig non sta a significare soltanto il tipo di armo di una barca a vela, ma anche l’intelaiatura che regge in piedi un palcoscenico teatrale, o musicale****, e anche i ponteggi che servono per la manutenzione di un palazzo.

E’ verosimile che l’attuale termine anglosassone rigging abbia avuto una lontana origine (simile a quella del genoa, da Genova) dall’antico italiano rigge, che designava dei sistemi formati da tondi di ferro, o catene, con un’estremità fissata al collare di trozza dei pennoni maggiori o u un opportuno collare collocato immediatamente sotto quello di trozza, detto appunto collare di riggia”*****.

Ora […] ho messo a fuoco quello che il velista, a prescindere dal fatto che sia un timoniere di un Optimist o l’armatore di un Maxi, un inguaribile giramondo di una barca da crociera o uno sfegatato agonista di una barca da regata, vuole sapere, conoscere e padroneggiare, dando per scontato che già sia capace di andare in barca: la propria barca è attrezzata al meglio rispetto ai compiti che è chiamata a svolgere? […] Ho sempre sostenuto che anche un alpino – adeguatamente istruito – potrebbe impiombare magnificamente: non è l’impiombatura l’arte del contendere. Bernard Moitessier diceva che la vita è troppo breve per imparare a impiombare! Le impiombature sono tasselli utili in un discorso di rigging, ma sapere impiombare non vuol dire automaticamente né essere un rigger, né capire quando e perché scegliere una manovra di rigging invece di un’altra. Se il lettore, leggendo questi scritti, capirà questo ultimo “perché”, non sarà diventato certo un rigger, ma sicuramente un velista più competente, e io avrò centrato il mio obbiettivo.

* Carlo Sciarrelli, Lo Yacht, Ed. Mursia, pag.5.

** Leggendo l’accomunarsi del termine rigger alla disonestà mi è venuto da sorridere: magari della letteratura sull’argomento potrebbe aiutare il velista a sceverare la lana dalla seta.

*** Brion Toss, The Rigging Handbook, Adlard Coles Nautical, pag. XIV

**** A questo proposito è significativo che nel mondo anglosassone la squadra che allestisce il palco per i gruppi musicali è chiamata “crew” come l’equipaggio di una barca, e “allestire un palco” si traduce in “rig the stage”.

***** O. Curti, “Il Libro Completo Dell’Attrezzatura Navale”, Mursia, pag 126.